domenica 7 ottobre 2018

Pino Daniele - 1979





Nonostante il continuo  ricercare percorsi sempre nuovi, la “recente” produzione musicale partenopea ha ulteriormente arricchito il già cospicuo patrimonio napoletano, con opere di grande pregio. Questi tentativi di rinnovamento costituiscono un operazione coraggiosa e affascinante ma notevolmente rischiosa, specie quando si tenta di “ammodernare” una pesantissima eredità composta da immortali pietre miliari, celebri in tutto il mondo. Tuttavia, nel caso della musica napoletana, un vero e proprio distacco non c’è mai stato, piuttosto una continua rilettura del patrimonio musicale, che spesso è frutto della commistione delle più disparate culture e generi musicali, sapientemente attualizzati al momento storico che si vive. A Napoli, negli anni a cavallo tra i ’70 e gli ’80 si sviluppò un movimento artistico denominato Neapolitan Power , ad opera di artisti del calibro di Enzo Avitabile, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, e soprattutto James Senese con Napoli Centrale e Pino Daniele; non una rottura col passato, ma una ardita fusione tra la classica, malinconica, melodica tradizione napoletana e il rock-blues-jazz-soul anglo americano, sospinta dal desiderio di rinnovamento culturale e sociale, onda che si estese anche al cinema e al teatro.
In particolare, la produzione di quegli anni di Pino Daniele raggiunse vette inimmaginabili, frutto di una creatività e di un fermento che ha avuto pochi esempi in tutto il mondo. Il cantautore era reduce dal suo primo lavoro in studio, l’album Terra mia, caratterizzato dal tentativo di creare un tipo di canzone che racchiudesse in sé tradizione popolare napoletana, blues, reminiscenze jazz, rock. Il risultato fu un album che dimostrava come l’esperimento di amalgamare generi così “distanti” fosse risultato positivo, dando un frutto musicale eterogeneo, suggestivo e di grande impatto.
In “Terra mia” l’autore si muoveva, attraverso un sound spesso accattivante e provocatorio, ma anche fortemente intimista, fra i drammi della sua città, osservandoli, scrutandoli, arrabbiandosi, incarnando i disagi degli “scugnizzi” moderni. Il disco è la sintesi di un sound “troppo napoletano”, con forti influenze folk, dallo stile ruvido, grezzo; nonostante tutto, in quest’album è contenuta la gemma più preziosa della carriera di Pino Daniele, una struggente dedica d’amore verso la propria città e uno dei brani più intensi di tutta la produzione italiana del dopoguerra, ossia Napule è. Ma se nel primo album ci sono tutti i connotati della sperimentazione, di un inconsapevole salto nel buio, nella seconda produzione il cantautore è già ad una svolta: abbandonata la ritmica popolare e folkloristica, c’è una virata verso stili più universali, come il blues o il samba. Brani come “Ue Man” e “Chillo è nu buono guaglione” sono la dimostrazione della metamorfosi, una delle tante che caratterizzerà l’intera carriera di Pino Daniele. Chi afferma che i primi album del cantautore sono tra i migliori mai prodotti, non si sbaglia. Con LP Pino Daniele, del 1979, si sono raggiunti livelli qualitativi difficilmente eguagliabili. Pino gioca molto sulle coordinate tra la Napoli nuova e quella vecchia, sui vicoli, sulle superstizioni e sulle tradizioni. Le canzoni cantate in dialetto napoletano rimangono ferme alle origini dando veramente poco posto all’italiano, mentre la musica si fa più corposa e influenzata sempre più dal blues e dalla musica latina. In studio il disco prende vita in modo quasi naturale, e nell’ispirazione di Pino Daniele la lava del Vesuvio comincia a farsi bagnare con maggior decisione dalle acque del Mississippi. 
I testi si spostano invece dai problemi di Napoli a tematiche più esistenziali e intimiste, tutti intrisi di forte calore umano che non riesce a negare l’origine mediterranea del musicista. Il fil rouge che lega le tematiche dell’intero album è una sottile vena  malinconica che contraddistingue i personaggi delle canzoni, vittime di un infame destino, difficile da cambiare, una raffinata poetica di verghiana memoria.  Di fianco a questi, però, si aprono degli sprazzi di sereno, una gioia di vivere improvvisa, con lo spettacolare sfondo dei vicoli, delle piazze, del mare e del Vulcano. 

In "Chi tene 'O mare" c'è tutto il tormento di una città e di chi vive il mare da vicino: apparentemente come risorsa, ma in fondo......                                                          ....Chi tene 'o mare 'o ssaje

porta na croce.
Chi tene 'o mare
cammina c'a vocca salata
chi tene 'o mare
'o sape ca è fesso e cuntento.
Chi tene 'o mare 'o ssaje
nun tene niente...


Chillo E' Nu Buono Guaglione è un vivace samba che parla di omosessualità. Il tormento interiore di un “femminiello”, in cerca della propria identità e di una vita normale: quando parlare di certe tematiche era ancora tabù! E’ inutile confermare che musicalmente è un brano che risente dello straordinario talento della band di Pino Daniele.
Donna Cuncetta parlate, donna Cuncetta dicite....... dint'a stu tuppo niro
ci stanno tutt'e paure 'e nu popolo ca cammina sotta 'o muro
.....Donna Concetta simbolicamente identificativa di un popolo, che cerca dignitosamente il proprio riscatto e la propria autodeterminazione.
Viento è una ballata acustica straordinaria, la più evocativa, pittorica e teatrale dell’intero album, dalla forte connotazione partenopea.
Ue man è la sintesi perfetta di tutta la musicalità di Pino Daniele, una inedita commistione tra inglese e napoletano suonata con un blues molto americano.
Putesse essere allero è lo sprazzo di sole che spunta dalle nuvole, una felice rassegna di tanti bei momenti che rendono la giornata (e la vita) degne di essere vissute.            
Je so pazzo, il 45 giri che fece da tràino all’intero album, è il più politicamente scorretto. Sostenuto da un linguaggio crudo, qui si parla ancora di rivincita, di ribellione, dell’ineluttabilità del destino, la “nobiltà” della sconfitta.
Concludiamo la sintetica rassegna dei brani dell’album con alcuni stralci del testo di
... E cerca 'e me capi', canzone che chiudeva il disco, in cui è presente un uso delle parole molto potente e incisivo:
E torno a casa stanco muorto e nun
voglio fà ' niente
sto cull'uocchie apierte e sento 'e
sunà.
E pruove a vedè cu dint’a ll'uocchie
'o sole
e cò cazone rutto a parlà 'e
Rivoluzione
e cride ancora, cride ancora
e pruove a vedè chi t'ha attaccato 'e
'mmane
e nun te pu’ girà pecchè te fanno male
e cride ancora, cride ancora...!



martedì 11 settembre 2018

NON STOP: quando la televisione italiana trasmetteva il futuro!



Non stop - Ballata senza manovratore è stato un programma televisivo trasmesso su Rai 1 tra il 1977 e il 1979. Esso nacque nel primo periodo successivo alla Riforma RAI, un momento particolare nel quale gli autori televisivi si occupavano quasi esclusivamente di sperimentazione innovativa, sia nel linguaggio che nel format. L'idea sostanziale, decisamente rivoluzionaria rispetto ai canoni tradizionali imposti dal varietà sino ad allora, fu istituire un programma che non prevedesse la figura del conduttore/presentatore, tradizionalmente una figura chiave e fondamentale per la riuscita di un programma televisivo, in quanto garantiva una certa continuità nella scaletta della trasmissione. Questa fu una soluzione ardita, molto rischiosa, in quanto si lasciava completamente la scena ad una sequenza ininterrotta e caotica di cabaret, musica e ballo, mantenendo comunque una certa continuità (da qui il sottotitolo apparentemente enigmatico ballata senza manovratore). Chi ebbe questa idea “folle” fu proprio un presentatore, il presentatore per antonomasia, ossia Pippo Baudo (questo fu il primo ed ultimo caso italiano di conflitto di interessi a rovescio!!!), che, pur mettendo momentaneamente in soffitta la propria professione, volle lanciare la ardimentosa proposta di realizzare un programma dedicato a nuovi talenti, e la suggerì al dirigente Rai Bruno Voglino. Questi incaricò in un primo momento dell'ideazione della trasmissione il grande autore Marcello Marchesi, ma la sua idea eccessivamente tradizionale non piacque. In un secondo momento l'incarico venne affidato a Giancarlo Magalli, che ne ideò la formula definitiva e, assieme al giornalista appassionato di cabaret Mario Pogliotti, valutò una serie di giovani esordienti, scoperti nei teatrini off sparsi per l'Italia, attingendo in modo uniforme da tutte le regioni. Per molti di loro fu l'inizio di una fortunatissima carriera. La regia venne affidata in un primo momento ad Antonio Moretti che, ad un mese dall'ingresso in studio, rinunciò e venne sostituito da Enzo Trapani, che inserì come coautore il paroliere Alberto Testa.
 L'unità del contenitore (e del messaggio) veniva quindi garantita dalle esibizioni comiche, collegate da balletti o canzoni, dalle scenografie, sgargianti ed aggressive sia dal punto di vista cromatico che cinetico (per sfruttare appieno, nel caso della seconda serie, il nuovo sistema a colori, appena introdotto nella televisione italiana) e da un ritmo incalzante, adeguato alle nuove abitudini del pubblico e dettate principalmente dall'introduzione del telecomando e della conseguente pratica dello zapping. E’ inutile sottolineare quanta importanza ha avuto NON STOP per il futuro della televisione italiana, sia pubblica che privata, che stava proprio in quegli anni decollando, e quanti programmi successivi è arrivato ad influenzare. In effetti questo tipo di format darà luogo ad una serie illimitata di imitazioni, prima fra tutte quella del successivo Drive In di Antonio Ricci, andato in onda sulla giovanissima Canale 5.
Durante la prima serie, per rafforzare il concetto di staffetta, viene introdotto un curioso e piccolo pupazzo simile, appunto, al testimone utilizzato nella corsa tradizionale. Tale oggetto viene passato di mano in mano agli artisti che si esibiscono in quel momento sullo schermo.
Oltre al formato (forse per la prima volta un varietà televisivo era progettato senza particolari riferimenti agli schemi tipici del teatro, ma anzi il ritmo e l'incedere erano pensati specificatamente per il media televisivo), il successo del programma fu dovuto anche alla presenza di un nutrito gruppo di giovani comici e cabarettisti in gran parte esordienti. Quando leggerete l’elenco dei nomi di tutti quelli che, grazie a NON STOP, hanno fatto il loro ingresso trionfale nell’empireo dorato dello spettacolo, non solo televisivo, ma anche cinematografico e musicale, ci si renderà conto dell’enorme importanza che ha avuto il programma e di quali autentici talenti un tempo passavano sullo schermo (e di come la televisione del 2000 sia inesorabilmente decaduta e impoverita, di contenuti e di eccellenti protagonisti)!!! Tra loro meritano di essere ricordati Marco Messeri, Carlo Verdone, il trio partenopeo della Smorfia (Massimo Troisi, Enzo De Caro e Lello Arena), il quartetto veronese de I Gatti di Vicolo Miracoli (Umberto Smaila, Jerry Calà, Franco Oppini e Nini Salerno), il trio fiorentino de I Giancattivi (Francesco Nuti, Athina Cenci e Alessandro Benvenuti), Zuzzurro e Gaspare. Doveroso ricordare anche l'attore Ernst Thole (scomparso pochi anni dopo la sua partecipazione al programma), che con intelligenza e ironia interpretava il ruolo di un omosessuale, tema che, nel 1977, era ben lontano da ogni remota concezione!!!
   In uno studio televisivo cromaticamente sgargiante, un gruppo di giocolieri veniva affrontato da una specie di sceriffo (il jazz singer Nicola Arigliano) che, con la ben nota formula “Non voglio noie nel mio locale!”, sparava colpi con la sua colt. Questo era l’incipit della sigla di Non Stop.  I titoli di testa scorrevano con la musica di El Pasador, al secolo Paolo Zavallone, e la sfilata di tutti i personaggi dello show. Di prassi i personaggi sfilavano in sequenza intervallati da qualche ospite, cantante o danzante. La formula piacque e fu riproposta a distanza di un anno per una seconda serie sempre di sei puntate dal 28 dicembre 1978 al 1° febbraio 1979. Nella prima serie del ’77, oltre ai personaggi già citati, si aggiunsero Enrico Beruschi, Ugo Fangareggi, Corrado Lojacono, Boris Makaresko, Yor Milano, Francesco Vairano. Gli intermezzi canori erano affidati a Asha Puthli, che era reduce dal successo estivo di The Devil is loose, mentre le coreografie vedevano protagoniste Les Chocolat’s, un gruppo franco-sudamericano molto in voga all’epoca. Lo snodatissimo mimo-ballerino Jack La Cayenne si esibiva nei suoi numeri surreali, tra cui quello famoso della sigla in cui si infilava una tazzina da caffè in bocca. Tra gli ospiti ci furono anche i Matia Bazar e un giovanissimo Pino Daniele.

 

 La compianta Stefania Rotolo curava la sigla di chiusura, come anche gli intermezzi coreografici, mentre la sigla d’apertura fu affidata alla voce della cantante inglese Nancy Nova, un clone della ben più nota Kate Bush, che nell’estate ’78 aveva spopolato con il brano Wuthering Heights.   Non Stop, anche qui grazie alla regia straordinaria di Enzo Trapani, fu il capostipite di trasmissioni che negli anni ’80 invasero la tv, prima tra tutte Drive In. La formula, considerata innovativa in quel periodo, si esaurì in seguito anche per la mancanza di nuovi talenti, ma oramai il suo “compito” la trasmissione l’aveva già svolto, e in maniera egregia,  se si pensa che tutto o quasi il cinema della commedia italiana anni Ottanta e Novanta deve il suo successo a attori e comici usciti da Non Stop: Massimo Troisi, Carlo Verdone, Francesco Nuti, Jerry Calà! Enzo Trapani pose una pietra miliare nella storia della televisione, ma non gli fu riconosciuto il pieno merito, sebbene tutti gli altri abbiano continuato a sfruttare le sue idee e intuizioni, valide ed attuali ancora oggi, a distanza di 40 anni.





















venerdì 10 agosto 2018

LO SAPEVI CHE....


…..la sera del 5 gennaio del 2013, chi si trovò ad entrare nel cineteatro Cicolella di Orta Nova, avrà creduto di essere stato catapultato nella Brodway degli anni ’40, a una serata di Glenn Miller o di George Gershwin, oppure a un concerto di Kid Creole & Coconuts degli anni ’80!

La musica della New Ort Band, diretta dal maestro Franco Ariemme, ha saputo ricreare le atmosfere perdute del vecchi club americani, fra luci e suoni autentici, e con una cornice di pubblico che neanche i 600 posti del teatro hanno saputo contenere.

Così è iniziata la breve storia di una serie di tre eventi, per tre anni consecutivi, tenutosi al cineteatro a margine delle festività natalizie, il modo migliore per salutare l’anno nuovo e ritornare alla vita quotidiana, dopo gli eccessi delle festività.

L’interessante rassegna si è interrotta bruscamente, privando così la nostra città dell’ennesima occasione per fare cultura e per promuovere eccellenze territoriali.

E pensare che le serate della New Ort Band, ad ogni edizione si stavano arricchendo di dettagli e proposte sempre più appetitose. A partire dagli ospiti, come il caro e compianto Tony Santagata, oltre che delle brillanti voci femminili che abitualmente accompagnavano l’ensemble. Non era scontato, proponendo musica swing, dixieland, pop jazz, avere un riscontro popolare, ma a giudicare dalle presenze, credo che l’esperimento sia riuscito alla grande.

La sensazione è sempre quella dell’occasione mancata, della cosa iniziata e mai finita. La nostra città sta vivendo un momento, che dura ormai da qualche anno, di aridità culturale, di appiattimento, di omologazione a modelli discutibili e di anestetizzazione dello spirito di iniziativa, senza che si faccia nulla per un rinascimento delle coscienze.

 








domenica 29 luglio 2018

CANZONI PER IL “CHE”



Il 14 giugno scorso avrebbe compiuto 90 anni. Una delle icone per eccellenza di tutto il 900, simbolo e sinonimo di rivoluzione, del sacrificio nel nome di una causa: il “Che”, Ernesto Guevara. Molto è stato scritto, documentato, trasmesso in televisione e sul grande schermo del cinema mondiale, ma anche molto è stato cantato, messo in musica e poesia. La notizia curiosa è che, dopo il mondo ispanico, l’Italia è la nazione che ha maggiormente omaggiato con i suoi versi questa figura indimenticabile per gli eterni ideali di giustizia e uguaglianza. Vi stupirete della varietà dei generi.
Francesco Guccini - ‘Canzone per il Che’ / ‘Stagioni’
Due omaggi da parte del “maestrone” modenese. In Canzone per il Che del 2004 vince il senso dell’uomo fiero che guarda con dignità in faccia i propri esecutori: rivoluzionario cubano, rivoluzionario d’America, il Che di Francesco Guccini è un uomo che va incontro alla morte con dignità e consapevolezza. "Signor Colonnello, sono Ernesto, il “Che” Guevara. Mi spari, tanto sarò utile da morto come da vivo"
In Stagioni (2000) prevaleva invece lo sconforto generazionale, l’illusione di cambiare il mondo, finita nella consapevolezza di non essere stati all’altezza dei proprio modelli, dei miti di gioventù. Pur confidando in una sua futura, inaspettata “reincarnazione” rivoluzionaria. Lo stile inconfondibile di Guccini, tra cantautorato italiano e folk americano, è la cornice che identifica e suggella questi due splendidi brani.
GUCCINI - canzone per il Che

GUCCINI - stagioni

Skiantos – ‘Canzone per Che Guevara’
Qui si “grida” l’aspetto più umano di Guevara, nel rimpianto dell’amico perduto, a tu per tu e senza filtri, come quando da ragazzi ci confidavamo coi poster appesi al muro della nostra stanza. Realizzato con la collaborazione dei fratelli Severini, ovvero i Gang, e pubblicato nel 1999, gli Skiantos tirano fuori questo grintoso pezzo dallo stile moderno, post punk, e nel finale non manca il rimpianto: “Ernesto Guevara, detto il Che, avrei volentieri bevuto con te!"
Pino Daniele - ‘Isola Grande’
La nostalgia doppia per Pino Daniele, che è sia ricordo dell’eroe scomparso, sia memoria personale di un concerto tenuto a L’Avana nel 1983, al Varadero Festival (in compagnia, tra gli altri, di Nanà Vasconcelos) spinge Pino Daniele a scrivere, 21 anni dopo, questa canzone struggente e malinconica. Un nostalgico di sinistra che invoca il ritorno di “un comandante (…) che parla di rivoluzione”. Inconfondibile la chitarra “latina” di Pino Daniele, in un brano suonato magistralmente, solo come il grande cantautore partenopeo ci ha abituato ad ascoltare.
Roberto Vecchioni - ‘Celia de la Cerna’
Intimità anche nel pezzo di Vecchioni, che si pone – tipico di lui – nei panni della donna: della figlia, dell’amante o come in questo caso della madre. E allora è la mamma di Ernesto che canta, è mamma Celia che lo vede partire sulla sua moto, già sapendo che sarà per sempre. Celia De La Cerna è il nome di mamma Guevara. Eccola, nel pezzo scritto da Roberto Vecchioni, datato 1997, interloquire con quel figlio un po’ speciale e ricordare la Poderosa, o meglio la vecchia Norton 500 con la quale il Che intraprese il suo viaggio per le strade del Sud America. Citato anche il primo soprannome di suo figlio, quel “Fuser” con il quale era conosciuto nelle sue squadra di rugby, il Sic e l’Altalaye. L’introduzione del brano è uno spezzone di una vecchia ed emozionante registrazione della voce originale del “Che”, dall’ impatto molto potente per l’ascoltatore, seguita dalla musicalità personalissima del professore e dalla sua timbrica vocale carica di tensione emotiva.
VECCHIONI - Celia della Cerna

Angelo Branduardi - ‘1° aprile 1965’
Si tratta di uno stralcio in musica dell’ultima lettera scritta da Guevara ai propri genitori, il lamento di un figlio che anela alla libertà ma si sente costretto nelle corde troppo istituzionali dell’esperienza politica cubana. Angelo Branduardi trasforma in musica e canto i sentimenti più intimi e i conflitti interiori dell’eroe argentino. Un pezzo toccante, molto sentito, ben calibrato tra le parole del Che, ormai stanco dell’esperienza al governo dell’Avana e pronto a imbarcarsi verso nuove avventure, nel puro stile Branduardi, soffuso, dolce, ma molto efficace. Brano pubblicato nel 1988. 
Daniele Silvestri - ‘Cohiba’
Uno dei cantautori fondamentali degli anni ’90 nella sua fase più ribelle, quell’ “uomo col megafono” che denunciava la libertà e i diritti di un popolo diverso nel panorama mondiale che sfrecciava verso la globalizzazione a tutti i costi. Cohiba è la marca di un sigaro cubano e anche il titolo di una delle canzoni più popolari del repertorio di Daniele Silvestri, uscita nel 1996. Un inno al Che senza se e senza ma e all’intera isola di Cuba che, nonostante tutto, resiste agli embarghi e all’aggressività dei vicini di casa yankee. I tempi musicali del brano sono trascinanti, un possente rock, condito sapientemente da reminiscenze di salsa cubana.
Gabriella Ferri - ‘Addio Che’
Una b-side firmata Pier Francesco Pingitore, ode che oltre alla passione vocale della Ferri ha dalla sua il merito del tempo. Si tratta infatti di un omaggio pubblicato proprio nel tragico 1967, anno in cui scomparve l’eroe argentino. Uno strano 45 giri, con un lato A occupato da “Il mercenario di Lucera”, interpretato da Pino Caruso e preso a prestito dai giovani di destra, mentre sull’altra facciata compare un’ode a Che Guevara, cantata alla sua maniera, da Gabriella Ferri. Ancora più curioso è che i testi delle due canzoni portino la stessa firma, quella di Pier Francesco Pingitore. Sì, quello del Bagaglino. Una struggente ballata eseguita magistralmente dalla malinconica e “romanissima” voce di Gabriella Ferri.
......Addio Ché
sei morto nella valle
e non vedrai morire
la tua rivoluzione......
.....Addio Ché
come volevi tu
sei morto un giorno solo
e non poco per volta......
GABRIELLA FERRI - Addio "Che"

Sergio Endrigo - ‘Anch’io ti ricorderò’
È il personalissimo saluto che il delicato cantautore di Pola dà al “Che”, soffermandosi sul suo ultimo giorno di vita, crepuscolare nella consapevolezza della sconfitta ma luminoso perché destinato alla memoria eterna del suo popolo. Anch’io ti ricorderò” è un mesto addio al Comandante Guevara, la descrizione del suo ultimo giorno di vita. Sergio Endrigo, sue le firme di testo e musica, immagina un eroe ormai sconfitto e immerso tra i ricordi di Cuba, mentre la sua gente continua a vivere sotto il sole giurando di non dimenticarlo mai. E’ una canzone del 1968, incisa sul lato B di un 45 giri. , "La colomba". Lo stile è quello tipico di Endrigo, diviso tra cantautorato italiano e chansonnier francesi.
Modena City Ramblers ‘Transamerika’
Quello di “Transamerika”, brano del 1997, è l’Ernesto che parte in moto in compagnia di Alberto Granado per girare in lungo e in largo l’America del Sud. Più che un viaggio un’iniziazione, la definitiva presa di coscienza di uno sfruttamento sistematico delle popolazioni indigene e delle loro risorse. Le parole introduttive sono di Luis Sepulveda, poi i Modena City Ramblers chiudono il cerchio con la loro consueta gioia. 
Ivan Cattaneo ‘Cha cha Che Guevara’
Tratto da “Urlo”, l’album di maggior successo della prima parte di carriera di Ivan Cattaneo, pubblicato nel 1980, “Cha cha Che Guevara” è un pezzo per certi versi irriverente, che naviga tra il glam e il punk di marca milanese, mescolando Fidel Castro, il mambo, i Barbudos e il tabacco. Tutto questo, quando in Italia era frequente una certa sperimentazione, specie negli ambienti underground, molto tempo prima della grande omologazione! 
Bandabardò ‘Tre passi avanti’
“Ognuno ha i suoi santi, le sue bandiere di libertà, io seguo Che Guevara”. In poco più di tre minuti, in questo brano del 2004,una dichiarazione di intenti, un no alla guerra, un sì deciso alla fratellanza, alla mescolanza, al lato nascosto dell’America. Il rock folk di una straordinaria band  fuori da qualsiasi legge di mercato e di tecniche di marketing. 
Milva ‘Lungo la strada’
Brano del 1976, che conferma l’impegno politico della grande interprete italiana. Dalla connotazione teatrale, quale Milva ci ha abituato da sempre, si avverte tutta l’intensità e la drammaticità della voce calda della cantante, con un cantato e una scrittura che richiama molto e anticipa le sonorità di Battiato e di Alice.
Loredana Bertè ‘Il comandante Che’
“Bandiera e il cuore cucito addosso
Per dire che ci sei.
Quel basco nero nel sole rosso
Che non tramonta mai”.
I testi accorati di Loredana Bertè accompagnano questo pezzo del 1993. La pasionaria del rock italiano, anticonvenzionale, dissacrante, si misura con un testo e una “dedica” molto impegnativi: un inno alla figura del Che, un rock fresco e dinamico, cantato e suonato alla sua maniera, anche se non è tra le canzoni più conosciute dell’artista calabrese.
Non potevamo però terminare le note ispirate alla musica dalla figura del “Che” senza citare ‘Hasta Siempre’ di Carlos Puebla, portato alle masse nel 1996 dai Buena Vista Social Club e – per restare nello stivale – reinterpretato con grande calore dai Nomadi nel 1997. 
NOMADI - Hasta siempre
Concludo degnamente questo articolo, con i meravigliosi versi di Francesco Guccini, tratti dal brano “Stagioni”:
“.......Si offuscarono i libri, si rabbuiò la stanza,
perché con lui era morta una nostra speranza:
erano gli anni fatati di miti cantati e di contestazioni,
erano i giorni passati a discutere e a tessere le belle illusioni...”

lunedì 16 luglio 2018

FOGGIA, CAPITALE PER UN GIORNO



Le vicende umane, da quando esiste la civiltà, hanno sempre avuto il carattere della caducità, alternando fortuna a cicli di decadenza. La città di Foggia, ad esempio, oggi possiede una marginale importanza in quelli che sono gli equilibri all’interno dell’organigramma dello Stato italiano, essendo, per posizione geografica, o per peso politico, economico e culturale, relegata al ruolo di realtà “periferica”, al pari di decine di altre piccole città italiane, soprattutto meridionali. Un peso ben diverso possedeva invece al tempo del Regno delle Due Sicilie, per il delicato ruolo strategico che il centro agricolo possedeva: situata nel cuore del Tavoliere, crocevia di comunicazioni, la sua importanza era dovuta anche grazie al settore pastorizio, col fondamentale compito logistico di smistamento, censimento e tassazione delle numerose greggi di ovini (grazie al secolare fenomeno della transumanza). La relativa  vicinanza geografica e politica di Foggia con la capitale Napoli, oltre all’enorme contributo per la fornitura di derrate alimentari, in particolare grano, e di sostegno economico derivante dalle attività sopraindicate, ha fatto sì che presso il governo Reale godesse di enorme considerazione e prestigio, tanto da essere annoverata come una “vice capitale” sui generis del Regno. In virtù di questo privilegio, verso la fine del diciottesimo secolo, la città dauna fu scelta come sede di un evento di particolare importanza, ossia le nozze Reali tra il Principe ereditario Francesco di Borbone e la principessa Clementina d’Austria.
Il matrimonio si celebrò il 28 giugno 1797 e per qualche giorno Foggia divenne virtualmente la capitale del Regno.
In previsione di questo evento, che avrebbe coinvolto l’intera città, Palazzo Dogana venne invaso da muratori, stuccatori, decoratori, fabbri e falegnami. Il palazzo venne ridipinto a nuovo all’interno e all’esterno, furono chiuse porte ed altre se ne aprirono, molti soffitti vennero rifatti, le cucine subirono spostamenti e fu creata una bottiglieria ed una biscotteria con forno esterno. Stucchi, decorazioni, dipinti nobilitarono e completarono gli ambienti.

Al primo piano vennero allestiti gli appartamenti reali, quello dello sposo e quello della sposa. Alle dame di compagnia e alle cameriere venne riservato il secondo piano, mentre, dove erano situate le originarie carceri maschili, al piano terra, in seguito allo sgombero e alla successiva disinfestazione, vennero allestiti i locali per ospitare il corpo dei granatieri reali.
Il Salone del Tribunale, dopo la cerimonia religiosa in Cattedrale, divenne il centro di grandi festeggiamenti, allietati per l’occasione dall’esecuzione del melodramma gioioso “Daunia Felice”, appositamente composto da Giovanni Paisiello, musicista e compositore tarantino, di fama europea, autore dell’inno nazionale delle Due Sicilie.
Tanto calda e generosa fu l’accoglienza di Foggia e delle sue più ricche famiglie (che contribuirono generosamente al prestito pubblico lanciato per finanziare i preparativi) che il Re elevò a rango di marchesi i casati dei Freda, dei Celentano, dei Filiasi e dei Saggese.
Quindi l’anno 1797 segnò un momento importante per la storia di Foggia e della Capitanata. L’evento proiettò nella città il costume, l’etichetta, gli intrattenimenti e i piaceri della corte. Letterati, cortigiani, musicisti, cuochi e il numeroso seguito della famiglia reale, nei 73 giorni di permanenza in provincia, trasformarono le usanze, le consuetudini e la vita stessa della città. Quando Re Ferdinando IV, padre dello sposo, entra a Foggia era il 14 aprile del 1797, seguito da un fastoso corteo, tra gli applausi e le acclamazioni del popolo in festa. Prese subito possesso di Palazzo Dogana, trasformato in tempi record in una vera e propria reggia. Dopo alcuni giorni di permanenza in città, il Re intraprese un lungo viaggio per la Puglia, durato quasi un mese. Per il sovrano, girare per le estese zone del proprio regno non era solo un diletto, ma anche una necessità, con lo scopo di far sentire la vicinanza della Corona alle zone più geograficamente “periferiche” dello Stato, ma anche per conoscere da vicino le più svariate realtà sociali ed economiche per le quali la Puglia (divisa amministrativamente nelle province di Capitanata, Terra di Bari e Terra d’Otranto) era considerata terra di eccellenza, grazie alle numerose e prestigiose produzioni agricole e per gli importanti porti di cui era sede. E’ bene ricordare che Ferdinando IV fu l’istitutore, fra gli altri, del distretto colonico dei 5 Reali Siti, a sud di Foggia. Una delle prime tappe del Monarca fu la città di San Severo, importante sede vescovile e rinomato centro agricolo, feudo dei principi Di Sangro. Le cronache dell’epoca raccontano che il Sovrano partì di prima mattina da Foggia, con un ristretto séguito di cortigiani e con l’inseparabile guida Troiano Marulli, duca di Ascoli Satriano. Il Re percorse una strada che attraversava magnifici campi di grano, di cui il Tavoliere fece ampio sfoggio e che gli suscitarono stupore e meraviglia, e in due ore giunse nella città dell’alta Capitanata. All’ingresso di San Severo fu accolto dalla parata del reggimento di Cavalleria Regina, che lo scortarono fino al centro città, accolto in maniera degna ed adeguata, ospitato da importanti notabili cittadini. Dopo una messa in cattedrale e una frugale colazione a base di pasticcio di cipolle, verdure e formaggi locali, inizia il viaggio di ritorno verso Foggia.



                                                                                                                                             

mercoledì 27 giugno 2018

Vintage, la sposa che vive due volte...





Lo sapevi...
..... che il  9 maggio del 2013, nella splendida cornice dei bianchi corridoi del Palazzo ex Gesuitico di Orta Nova, si è svolto un défilé di abiti da sposa vintage, abiti che hanno ripercorso un arco di tempo che va dai primi anni ’50 ai più recenti anni ’90. Titolo dell’evento è stato Vintage, la sposa che vive due volte, con l’organizzazione e la regia di Pina Quiese. La storia di questa autentica “artigiana” della sartoria è emblematica e può costituire uno stimolo per quelle persone che hanno voglia di scoprire realtà semisconosciute nel sottobosco della nostra città, ma che esistono e vivono. La stilista e amica Pina è uno di quegli esempi in cui la passione per il proprio lavoro assurge a una dimensione immateriale, decisamente artistica e la sua manualità, unità a un senso di pura devozione, sono un patrimonio da scoprire e da ammirare.  Pina, con la sua attività presente e i suoi numerosi progetti futuri, si fa “portatrice sana” di quegli antichi mestieri che non costituivano solo semplici professioni, ma implicavano delle competenze particolari e delle abilità che definire artistiche era poco. Il numerosissimo pubblico presente ebbe modo di ammirare delle creazioni di alta sartoria artigianale, con preziose e particolari rifiniture e pregiatissimi tessuti che lasciavano intendere un mondo oramai scomparso, fatto di manualità, di estenuante lavoro di vecchi e pazienti sarti (con relativi collaboratori), ma anche di un gusto particolarmente raffinato, nonché di centinaia di ore di lavoro dedicate alla creazione di opere di così alto pregio. L’operazione di Pina è stata  principalmente storica e culturale, ma anche antropologica, tesa com’è stata a ripercorrere cinquanta anni di vita ortese, di trasformazioni, di conquiste e di successi, un mondo di cui oggi, nella frenesia e nell’omologazione della società contemporanea, si tende a perdere le tracce. I diversi abiti che sfilarono furono accompagnati dalle musiche dell’epoca di appartenenza, il tutto a creare una atmosfera davvero particolare, pregna di delicata nostalgia, che sicuramente ha richiamato tanti ricordi, ma anche di sorprendente entusiasmo, per l’interesse che, nel 2013, la storia di questi abiti suscitò. Era affascinante e intrigante intuire la provenienza, la vita, la famiglia e le vicende personali, di chi quegli abiti li ha indossati, tanti anni fa. I pizzi, le sete, i delicati voile, i taffetà, l’organza sono stati dei veri e propri libri di storia e di costume, che hanno narrato il passato di Orta Nova in maniera sincera e obiettiva.




domenica 3 giugno 2018

ORTA NOVA: HARLEM MUSIC CLUB

                              TRA SOGNO AMERICANO E SUGGESTIONI MEDITERRANEE
Prefazione di Giuseppe Scommegna
Diceva Duke Ellington: “Ci sono tante cose ad Harlem…scene di vita, di gente che fa all’amore, odore di cucina…si sente la radio...; un cortile di Harlem è come un altoparlante: vedete seccare la biancheria al sole, sentite abbaiare il cane del vicino, sentite l’odore del caffè…che cosa meravigliosa è quell’odore!  E un cortile mostra anche i contrasti: chi fa cuocere riso e chi un grosso cappone…”.  Certo, perché Harlem non è solo il nome di un quartiere di New York, bensì è stato lo scenario di un vero e proprio microcosmo dove, fra le mille contraddizioni sociali e le sofferenze del ghetto nero, si è sviluppato il dirompente epicentro di tutto il jazz americano. Harlem è stato il ritratto più autentico del linguaggio afro-americano, dell’aspirazione alla libertà espressiva e socio-politica, nonché il quartiere del Cotton Club, del Birdland e di altri mitici locali dove si esibivano frequentemente i più grandi nomi della storia del jazz.
Ma Harlem è anche “l’america” che tutti noi abbiamo sempre sognato ed immaginato e che due nostri concittadini, Rocco Di Cosmo e Gabriele Corvino, hanno avuto il coraggio di toccare con mano e di concretizzare attraverso l’apertura di un music club (l’Harlem, per l’appunto) che ha avuto tutte le caratteristiche dei grandi locali d’oltreoceano.  Punto di aggregazione per musicisti e appassionati di musica, luogo di scambio di idee e di nuove tendenze culturali, si presentava come uno dei pochi circoli stimolanti per la creatività di chiunque voleva esibirsi, grazie anche alla presenza di un palco e di strumenti musicali disponibili per tutti.
L’Harlem Club ha costituito una realtà decisamente innovativa per Orta Nova,  città a volte un po’amorfa ed incolore, adagiata nel perenne disinteresse e nell’apatia di molti suoi giovani cittadini!  Ed è per questo che dobbiamo sentirci in dovere, anche a distanza di anni, di ringraziare questi due ragazzi, Rocco e Gabriele, che ci piace immaginare come i leggendari personaggi di un celebre testo teatrale di Alessandro Baricco (Novecento), i quali sorretti dalle incantevoli note del pianista sull’oceano, avevano ”l’america negli occhi” e la piena consapevolezza che “…non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia da raccontare”.  E loro una storia da raccontare ce l’hanno avuta!  Tra i tanti locali aperti (e spesso poi chiusi) nella nostra città, l’esperienza dell’Harlem Club è stata unica, anche se qualche locale cittadino tenta di emularne lo spirito. L’idea del Club era magnifica, rivoluzionaria per il nostro ambiente, un vero luogo della mente, in cui immergersi lasciando fuori dalla porta quella che poteva essere la realtà quotidiana di ogni suo avventore. E proprio fra i suoi clienti, era forte il richiamo di gente che proveniva da fuori Orta Nova, che condivideva  lo stesso spirito e la stessa passione per la musica di molti ortesi. Così come numerosi sono stati gli ospiti musicali, persone capaci di comunicare con uno strumento tra le mani, così come per loro è facile parlare, mangiare o bere. Ma una serata resterà per sempre impressa negli occhi e nelle orecchie di chi è stato protagonista, tra quegli ottanta spettatori, la sera del 21 novembre 2009, quando l’angusto palco all’interno del locale è stato occupato dal chitarrista napoletano Antonio Onorato e dal suo gruppo. E che storia, quella che il protagonista ha voluto raccontare attraverso le note: il musicista ha collaborato (tra gli altri) con Pat Metheny e Pino Daniele, e, nota curiosa, è stato il maestro del talento nostrano Matteo Fioretti.
Alla presenza di un’ottantina di spettatori (alcuni dei quali giunti addirittura da Termoli) era accompagnato da un trio delle meraviglie, composto da Joe Amoruso, leggendario pianista dell’età dell’oro di Pino Daniele, Diego Imparato, bassista di talento e dello straordinario batterista Alberto D’Anna, scomparso prematuramente nel 2015, e del quale porteremo per sempre i suoi suoni e il suo ricordo. Il leitmotiv della serata è stato possibile individuarlo nella fusione tra fraseggi puramente jazzistici con ascendenze coltraniane e spiccate sonorità mediterranee caratterizzate dall’uso frequente di scale napoletane ed orientali, nonché dall’uso di una synth guitar a fiato. E’ stato indubbiamente un evento, oseremmo dire, unico nella storia musicale ortese, sulla cui portata non c’è stata però né la giusta percezione, né tantomeno un’adeguata partecipazione: basti pensare che su ottanta persone c’erano solo venti ortesi!  



Campeggiava nel locale una suggestiva tela realizzata da Michele Sacco, e donata allo staff come auspicio della buona riuscita del progetto, mentre il logo fu opera del pittore Faccilongo. L’arredamento, molto caldo e accogliente, discretamente soffuso, era l’ideale per trascorrere delle serate in piena spensieratezza, con il contributo del piccolo e fornito banco bar e il continuo sottofondo della musica live che ogni sera veniva proposta all’Harlem Club.

Ma non solo musica: l’amica Giovanna Di Pietro, ad esempio, fu la curatrice di una bellissima rassegna di cinema musicale, con la visione delle più celebri pellicole americane dedicate alla musica, prima fra tutte l’iconica The Blues Brothersfilm commedia musicale del 1980 diretto da John Landis e interpretato da John Belushi e Dan Aykroyd. E poi la musica suonata, dalle tantissime band che sono state ospitate, ai numerosissimi amici e collaboratori, musicisti e avventori allo stesso tempo, persone che hanno voluto condividere un sogno, romantico e visionario al tempo stesso: Matteo Fioretti, Riccardo Mennuti (Richard Blues), Giovanni Tripputo (John Trip), Maurizio Ferrandina, Daniele Del Gaudio, Francesco Bozza, Peppino Di Leo, Giuseppe Scommegna, oltre naturalmente ai due titolari!



Vita quotidiana al Club, con Matteo Fioretti

Vita quotidiana al Club, con Richard Blues.




Memorabile fu la serata/evento col tributo a Fabrizio De André, con il locale invaso da oltre 350 persone, a dimostrazione delle passione  e del particolare gradimento per l’idea e per la poesia di Faber. E come dimenticare le suggestioni argentine del Nuevo Tango Ensamble di Gianni Iorio, tra tango e jazz?! La proposta musicale dell’Harlem era multicolore, dedicata a tutto coloro che sono  stati capaci (e lo sono tutt’ora) di recepire la magia delle sette note, qualsiasi sfumatura esse abbiano. Altri autorevoli testimoni della vivacità del club furono Federico Poggipollini, già chitarrista e collaboratore dei Litfiba e prima chitarra di Luciano Ligabue, e Davide Luca Civaschi, meglio conosciuto con il nome d'arte di Cesareo, chitarra ufficiale di Elio e le Storie Tese, nonché collaboratore di Daniele Silvestri e del compianto Massimo Riva, storica chitarra di Vasco Rossi. La storia dell’Harlem Club, come si vede, è puntellata di grandi e piccoli eventi, tutti memorabili per chi ha avuto la fortuna di assistervi, ma il Club ha chiuso i battenti lasciando dietro al grande portone di legno, oltre alle voci, i suoni e i ricordi, una solenne promessa: la serata che vide come ospiti Antonio Onorato e la sua band, il talentuoso pianista Joe Amoruso, in piena confidenza, disse: < wuagliù, avete fatto un bellissimo club dove si suona divinamente, mi sembra di essere tornato negli anni settanta, e voglio turnà a sunà nata vote cà >!!! Siamo in tanti a sperare che questa promessa venga mantenuta.

Federico Poggipollini (al centro) con alcuni membri del Club, tra i quali uno dei titolari, Gabriele Corvino (a destra)
 
Il chitarrista partenopeo Antonio Onorato, durante una delle serate/evento al Club.







domenica 13 maggio 2018

THRILLER - Michael Jackson





Il 30 novembre 1982  un giovanissimo Michael Jackson presentava al mondo "Thriller", il suo sesto album realizzato in studio. Quello che doveva essere il semplice lancio di un comunissimo album, di li a pochi mesi si trasformò in un evento epocale, che non ha mai avuto più eguali nel mondo della musica leggera! A produrlo fu Quincy Jones, musicista e abile produttore musicale, che fece di Michael Jackson il futuro re del pop. L'ex voce dei Jackson Five in breve tempo fu catapultato sotto i riflettori e il suo disco, a 40 anni dalla sua uscita, resta ancora il più venduto nella storia della musica mondiale, tant’è vero che  la rivista Rolling Stone lo ha inserito nella lista dei 500 migliori album di tutti i tempi.  Nonostante "Thriller" sia uscito agli inizi degli anni ‘80 attualmente  resiste nella classifica Billboard 200 Chart: al suo debutto il disco fu al primo posto per 36 settimane e oggi mantiene saldamente la 126esima posizione!  Con otto Grammy vinti e un seguito ininterrotto di primati, l'opera di Michael Jackson è un cocktail che fonde il funk con il rhythm and blues, musica disco e influenze pop e rock. Si dice che abbia venduto qualcosa come 130 milioni di copie in tutto il mondo, dei quali più di 33 nella sola America (nel caso specifico di questo album, così come tanti altri album di artisti che l'hanno preceduto, e fino alla comparsa sul mercato della "musica invisibile", fra visualizzazioni e download, si parla di vendita effettiva e materiale di dischi in vinile o CD, quindi i dati sono ancora di più impressionanti, così come i milioni di dollari mossi). Mai visto e mai più si vedrà qualcosa di simile nella storia del pop. Un trionfo tale da risollevare completamente la crisi che aveva colpito il mercato musicale americano dopo la fine dell'epoca segnata dalla disco music. Come se non bastasse, dopo il 25 giugno 2009, data della tragica scomparsa dell'artista, il disco è tornato in vetta a tutte le classifiche mondiali, vendendo altri 2 milioni di  copie!   
Il 17 febbraio del 2017 l’album è stato ufficializzato dalla Recording Industry Association of America (RIAA) come vincitore di 33 dischi di platino nei soli Usa che, tradotto in termini numerici, equivale  a 33 milioni di copie vendute: un risultato mai raggiunto da nessun altro artista negli Stati Uniti. In totale, nel mondo, Thriller ha ricevuto 101 dischi di platino, 17 dischi di diamante, 8 dischi d'oro e 8 Grammy Awards, raggiungendo la posizione numero uno in oltre 20 Paesi, tra cui l'Italia.
Come ogni grande fenomeno, anche la storia di Thriller è accompagnata da tante curiosità, aneddoti e leggende metropolitane che a distanza di anni stuzzicano ancora l’interesse di fans e curiosi di ogni parte del mondo.
Così come Elvis Presley aveva traghettato il rythm & blues presso un pubblico bianco, Thriller ha portato il funk e il soul al di fuori delle classifiche riservate alla musica nera, rendendo il suo messaggio universale e abbattendo per la prima volta dei fastidiosi steccati culturali, allora molto solidi. Il fenomenale successo del disco ha dato il suo piccolo contributo all'eliminazione delle barriere razziali, ancora molto presenti in America. Stazioni radio tradizionalmente "bianche" iniziarono a passare alcuni brani dell’album, nonostante le proteste degli ascoltatori.  Basti pensare che Billie Jean è stato il primo video di un artista nero trasmesso da Mtv, che da quel 30 novembre iniziò a programmare il video di Jackson almeno una dozzina di volte al giorno ! L'eccezionalità di Thriller è che ogni brano è potenzialmente un singolo; ma l’altra sua grande peculiarità è l’apertura alla contaminazione tra stili diversi, la magica combinazione di generi musicali apparentemente lontani tra loro. Per ottenere questi risultati Jackson si è avvalso della collaborazione di validissimi musicisti, oltre che dell’eterno amico Paul Mc Cartney, quest’ultimo presente in particolare nel brano The girl is mine. La canzone, piaciona e non proprio originale, è perfetta per far breccia presso un  pubblico eterogeneo, ma le interpretazioni vocali di Jackson e di Paul McCartney (un duetto che sarà riproposto in Say Say Say dell’1983), e i loro buffi scambi verbali su una ragazza contesa, sono da antologia.

Billie Jean

Se c’è una canzone che rappresenta tutte le doti, le contraddizioni e la genialità di Michael Jackson, quella è Billie Jean. Il brano venne eseguito per la prima volta in pubblico il 25 marzo 1983 al Pasadena Civic Auditorium, in occasione dei 25 anni della storica etichetta Motown, la più importante casa discografica di musica nera americana. Durante l’evento Jackson eseguì per la prima volta il leggendario moonwalk, il passo della luna, vero segno distintivo nelle sue coreografie. Il giro di basso è uno dei più famosi di sempre, insieme a quello di Another one bites the dust dei Queen, Staying alive dei Bee Gees e Good times degli Chic. E poco importa se Billie Jean racconta di una travagliata relazione di Jackson con una fan-stalker, che sosteneva di essere stata messa incinta da luila cosa migliore, sembra suggerire il brano, è ballarci sopra !

Beat it


C’è chi lo definì “rock nero”, altri “dance metal”. Tutti sono concordi nel trovarlo un capolavoro, che ha aperto strade fino ad allora inimmaginabili per il pop. Sta di fatto che gli steccati tra rock bianco e musica nera sono definitivamente caduti grazie a Beat it, che rende riduttiva la definizione di Re del Pop per un artista che ha avuto influenze musicali eterogenee. Il riff di chitarra, unito all’indimenticabile assolo di Eddie Van Halen, rendono questo brano di Jackson il più amato dagli appassionati di rock. Oltre a Van Halen, la chitarra ritmica e il basso sono suonati da Steve Lukather dei Toto. Un’altra traccia dell’album, ossia Human Nature, fu opera di Steve Porcaro, tastierista, sempre dei magnifici Toto, che riuscì a comporre un gioiello di pura musicalità, dalle atmosfere magiche e rilassate, tanto da essere ripreso qualche anno dopo dalla geniale tromba di Miles Davis, con una cover memorabile.


Thriller
 La title track, che originariamente si sarebbe dovuta chiamare Midnight man o Starlight, suona epica e drammatica allo stesso tempo, sorretta da un basso persistente, da una solida chitarra funky e da spettrali tastiere. Se i brani dell’intero album hanno contribuito al grande successo di vendite per Michael Jackson, il lungo video l’ha fatto entrare nella leggenda!
Il cortometraggio è considerato una pietra miliare del ventesimo secolo, non solo in campo artistico, ma anche per ciò che riguarda la cultura pop occidentale. Il video della canzone, il più famoso e celebrato di sempre, è una vera e propria opera horror, pur se stemperata da una buona dose di ironia, della durata di quasi quattordici minuti e dai costi galattici per l’epoca.  Un dirigente della Sony era andato letteralmente su tutte le furie, rifiutandosi di concedere il budget di 900.000 dollari che Michael Jackson aveva richiesto per il video, facendo scendere la cifra a 500.000. Dopo il rifiuto di concedere il budget richiesto, Jackson ribattè: "Allora me lo finanzierò io!". Per bilanciare le spese, il cantante riuscì a vendere un documentario sul “dietro le quinte”, a Mtv per 250.000 $ e a Showtime per 300.000 $ !
Il plot del video è semplice, ma efficace: un giovane Michael, in un’ambientazione tipicamente Anni Cinquanta, si reca al cinema con la sua ragazza e, usciti dalla sala, le confessa di essere diverso dagli altri, ossia un lupo mannaro. Il cortometraggio gioca sapientemente tra immaginazione e realtà, attraversando varie epoche e diverse ambientazioni.
Per realizzare il film, alla regia fu chiamato John Landis, noto anche per aver girato film come “Blues Brothers”, “Una poltrona per due” e “un lupo mannaro americano a Londra” pellicola di cui Michael Jackson era letteralmente innamorato.
"Jackson mi disse che amava "Un lupo mannaro americano a Londra" e mi fece domande sulla metamorfosi da uomo a lupo - ha dichiarato Landis -. Era affascinato dagli effetti speciali creati nel film. In definitiva, voleva diventare un mostro".
Per il makeup fu ingaggiato Rick Baker, che nel suo curriculum poteva vantare un Oscar per il suo lavoro proprio ne "Un lupo mannaro americano a Londra". Il truccatore fa anche una comparsa nel video, impersonando lo zombie che esce dal mausoleo.
La ragazza con cui Michael Jackson si accompagna nel video si chiama Ola Ray e aveva posato su Playboy come Miss Giugno 1980.
Dopo la pubblicazione di "Thriller”, per una strana “coincidenza”, iniziò la lenta metamorfosi di Michael Jackson: il cantante iniziò a sottoporsi a interventi di chirurgia plastica sempre più evidenti, che lo porteranno, anni dopo, quasi a sfigurarsi e ad assumere un’espressione innaturale. Già dal volto riportato sulla copertina dell'album a quello che si vede nel video, i tratti somatici del cantante risultano visibilmente alterati.
Quando i Testimoni di Geova scoprirono che stava girando un video con zombie e lupi mannari, minacciarono di scomunicare il cantante perché stava violando le regole ferree del movimento. Venuto a conoscenza di questa possibilità, Jackson ordinò che il materiale video fosse distrutto, ma il produttore nascose la pellicola fino a quando l’artista non cambiò idea.
Dato gli argomenti trattati, Jackson fece aggiungere una prefazione all'inizio del video. L'artista fece apparire le seguenti parole: "Date le mie ferree convinzioni personali, desidero sottolineare che questo film non dimostra in nessun modo credenze nell'occulto". Ai tempi si considerò la dichiarazione come una prova del fatto che Jackson fosse un testimone di Geova.
Parte dell'ispirazione per il video deriva da uno scherzo subìto da Michael Jackson: quando era piccolo il padre si arrampicò in camera sua, sbucando dalla finestra con una maschera mostruosa e urlando, nel cuore della notte. Questo metodo spaventoso fu voluto per convincere il figlio a chiudere la finestra mentre dormiva, cosa ripetutagli troppe volte senza alcun risultato.

Il celebre bomber rosso indossato dal cantante, disegnato dalla stilista Deborah Nadoolman, è stato venduto all’asta per 1,8 milioni di dollari.
Il coreografo di “Thriller” è Michael Peters. Compare nel video di “Beat It”, vestito di bianco con gli occhiali da sole e i baffi. E’ superfluo ricordare che i passi e le coreografie del video sono diventati patrimonio universale per ogni ballerino che si voglia cimentare nella danza moderna.
L’indimenticabile e inquietante voce fuori campo è quella di Vincent Price, che Michael conosceva fin da piccolo. L’attore, dopo la realizzazione del video, preferì essere pagato con un più sicuro forfait di 20.000 dollari, anziché con una percentuale sulle vendite del disco!!!
Un “Thriller” da Guinness dei Primati: il 29 agosto 2009, a Città del Messico, un grandioso e spettacolare flash mob ha portato 13.597 persone a ballare insieme sulle note del celebre brano!
Il videoclip è una parodia dei film horror ma, dietro la facciata del puro intrattenimento, insinua domande tutt'altro che banali sull'identità, sulla diversità e sulla pirandelliana sovrapposizione tra finzione e realtà.
Nel 2008 Thriller è stato incluso nella Biblioteca del Congresso americano come "Tesoro Nazionale" e il disco si è piazzato al ventesimo posto nella classifica della rivista "Rolling Stone" sui 500 migliori album di tutti i tempi.
In conclusione, è impossibile cercare, tra i 9 brani di Thriller, una canzone trascurabile o poco ispirata. Si dice che la perfezione non appartenga a questo mondo, ma qui, almeno per quanto riguarda la musica, ci si è davvero avvicinati di molto!