Ippolito Nievo è stato un letterato, poeta e patriota italiano, vissuto nel diciannovesimo secolo e attivo partecipe degli eventi che hanno portato all’unificazione degli stati italiani sotto un’unica bandiera. Nato nel 1831 a Padova, da famiglia agiata, e avendo vissuto la sua infanzia e la prima giovinezza fra Veneto e Friuli, negli anni ha sviluppato una accesa insofferenza verso i dominatori austriaci, fattore che l’ha avvicinato agli ambienti patriottici e rivoluzionari. Nel 1855 si laurea in Legge all’università di Padova. Il padre, avvocato, vuole avviarlo alla carriera forense, ma Ippolito sceglie di non esercitare la professione per non fare atto di sottomissione al governo austriaco. Nel 2011 la Fazi editore ha pubblicato un romanzo storico di Paolo Ruffilli dal titolo “L’isola e il sogno”, interamente dedicato alla vita, breve ma avventurosa, di Ippolito Nievo, l’autore del celebre “Le confessioni di un italiano”, opera che uscì postuma nel 1867. Ad onore del vero, però, va detto che la vita di Nievo non fu per niente romanzata ma ebbe risvolti piuttosto drammatici e nello stesso tempo inquietanti, che gettano una luce cupa sulla fin troppo ridondante e stucchevolmente retorica epopea risorgimentale.
Giovanissimo, aveva partecipato attivamente ai moti del 1848, ma era stato l’incontro con Giuseppe Garibaldi a condizionare la sua vita, tanto che nel 1859 si arruolò nei Cacciatori delle Alpi, per poi indossare la camicia rossa e partecipare, l’anno seguente, alla spedizione dei Mille. Dopo essere stato nominato vice intendente della spedizione, il Nievo compilò un diario in cui annotava con precisione certosina tutti gli accadimenti che si verificarono dal 5 al 28 maggio del 1860. In seguito fece ritorno a Torino, soddisfatto di aver dato il suo apporto alla causa dell’unità nazionale. Gli viene conferito il grado di colonnello dell’esercito piemontese.Poco dopo la spedizione, intanto, Garibaldi venne messo da parte da
Vittorio Emanuele II, e la reggenza delle regioni meridionali affidata a
fedelissimi funzionari della corona sabauda. Da questo momento si iniziò a far
luce sulla gestione dei fondi dell’intera spedizione, fondi raccolti dalle
generose sottoscrizioni effettuate sia in Italia che all’estero (specialmente
dall’Inghilterra, dove la massoneria si diede un gran da fare!!!) e poi
cresciuti in maniera abnorme man mano che i liberatori “requisivano” le casse
del Banco di Sicilia prima e di Napoli dopo, ricche di depositi finanziari del
governo borbonico. La somma raggiunse la stratosferica cifra di 600 milioni di
lire (per rendere meglio l’idea, il corrispettivo attuale in euro è di circa
tre miliardi !!!!).
Garibaldi affidò l’amministrazione di tale ingente patrimonio ad Agostino
Bertani, medico milanese di fervente fede repubblicana, divenuto di fatti il
cassiere dei Mille. Nessuno ha mai fatto chiarezza sulla limpidezza della
gestione di Bertani, sta di fatto che il dottore meneghino, dopo breve tempo,
divenne esageratamente ricco, cosa che prima non era. A Torino pensarono bene
di affidare ad Ippolito Nievo il delicato incarico di tornare in Sicilia e
recuperare ogni sorta di documentazione sulla gestione finanziaria dell’impresa
dei mille, senza tener conto che la spedizione aveva comunque proseguito il suo
cammino, risalendo la Calabria fino a Napoli e che lungo il tragitto e nella
capitale borbonica fu requisito e prelevato tutto ciò che c’era da prendere (se
questo non si chiama furto, datemi una mano a trovargli un nome).
Nievo, nei sui resoconti, aveva annotato con precisione maniacale ogni
particolare: il numero degli arruolati, le paghe ad essi corrisposti, i costi
delle forniture militari e le spese di gestione. Spesso si era trovato in
disaccordo con i responsabili del nuovo governo dittatoriale, riscontrando una
enorme confusione e i conti che non quadravano affatto. Fra le diverse
operazioni sospette, l’acquisto di sessanta mila cappotti destinati ai
garibaldini, ma mai indossati: si scoprirà che gli stessi garibaldini li
rivendevano a basso prezzo, per intascarsi i soldi! Un numero spropositato e
ingiustificato di promozioni nell’esercito, in modo da far lievitare la paga
mensile per molti componenti la spedizione! Inoltre, nei vari reparti
dell’esercito si annotavano gli arrivi, ma non i trasferimenti e i congedi,
cosicché parte del contingente che formava il battaglione era di fatto
fittizio, ma il denaro che arrivava in base al numero dei soldati iscritti era
vero però !!!
Il Nievo soggiornò per qualche giorno a Napoli, in compagnia del suo
diretto superiore Giovanni Acerbi. Fu questi che gli indicò di recarsi a
Palermo, al fine di procurarsi la documentazione. Imbarcatosi il 15 febbraio
del 1861 sul vapore “Elettrico”, giunse a Palermo tre giorni dopo. Verso
la fine del mese, dopo aver raccolto una imponente documentazione cartacea, che
stivò in sei capienti casse, il letterato decise di far rientro a Napoli. In
una cassa in particolare, dalla quale Nievo non si separava mai, erano
contenuti molti soldi, ricevute, fatture, lettere e tutto quello che riguardava
l’ingente patrimonio garibaldino. Fra i tanti carteggi, c’erano le prove di un
finanziamento di dieci mila piastre turche (all’incirca 15 milioni di euro
attuali – la piastra turca all’epoca era la valuta con la quale avvenivano le
transazioni commerciali e finanziare nel Mediterraneo), il cui destinatario era
proprio il Garibaldi, bonifico arrivato da Londra a nome di misteriosi funzionari governativi. Per le cronache di politica europea dell’epoca, diciamo
che l’Inghilterra era favorevole al ridimensionamento del Papato e dei Borbone
del Regno delle Due Sicilie, oltre all’interesse famelico per l’enorme
ricchezza contenuta nelle banche del Regno.
Ma all’origine dell’ostilità antiborbonica della corona britannica c’era
un vecchio contenzioso sullo sfruttamento del prezioso zolfo siciliano, indispensabile
per la produzione di polvere da sparo. Inoltre, da poco era stato aperto il canale di Suez e i bastimenti inglesi, di ritorno dalle Indie, seguivano proprio la rotta mediterranea siciliana. Quindi i reali borbonici erano considerati
inaffidabili, in quanto più di una volta avevano tentato di mettere in
discussione il monopolio delle grandi compagnie inglesi nell’estrazione del
minerale ( ma i Borbone non facevano altro che praticare prezzi di mercato e al
miglior offerente !!!).
Tra le numerose prove cartacee presenti nel baule, si registrano anche
quelle da cui emergono generose ricompense per spie ed informatori segreti,
oltre a gravi responsabilità di Garibaldi e di alcuni banchieri palermitani
conniventi che avevano utilizzato fondi dei correntisti del Banco di Sicilia
per corrompere diversi generali dell’esercito borbonico, in particolare il Lanza,
che in cambio di una sostanziosa somma, ordinò a 25 mila soldati ben armati ed
equipaggiati di abbandonare Palermo e metterla in mano a 600 garibaldini della
peggior razza, sporchi, inesperti e male armati !!!
La documentazione raccolta da Ippolito Nievo era molto scottante e più di una persona aveva interesse a farla sparire. Negli
ambienti politici e giudiziari torinesi e nell’opinione pubblica piemontese,
oltre che nella libera informazione di metà ottocento, circolavano voci non
proprio edificanti, di gestioni sospette, di oscure operazioni e di avventurieri che, partiti senza un soldo dalle lande del nord per aggregarsi ai mille (gran
parte dei garibaldini imbarcati erano montanari bergamaschi, che non avevano
mai visto il mare prima di allora) erano ritornati a casa inspiegabilmente
arricchiti! Inoltre si faceva cenno a una nuova società per azioni, costituita da poco
(con quali capitali?!!) e appaltatrice dei lavori per la costruzione delle ferrovie in Sicilia, i cui maggiori azionisti, guarda caso, erano il medico Bertani e Domenico Menotti Garibaldi,
figlio primogenito di Giuseppe Garibaldi (non so se ridere o piangere) !!!
La mattina del 4 marzo 1861 Nievo si imbarcò sul vascello a vapore
“Ercole”, attraccato al molo dell’Arsenale del porto di Palermo. Sulla nave, al
comando del capitano Michele Mancino, vi erano 63 marinai, 12 passeggeri e 233
tonnellate di merci. Tra i passeggeri erano presenti alcuni ufficiali
garibaldini, che “scortavano” il letterato e le sue preziose casse. Nella notte
tra il 4 e il 5 marzo, giunti quasi in vista dell’isola di Capri, quindi molto
vicini allo sbarco, la nave improvvisamente si inabissò. Non ci fu alcun
superstite. Si trattò di una strana coincidenza, in quanto quella notte le
condizioni atmosferiche erano ottimali e il mare piuttosto calmo. Il piroscafo
non arrivò mai a Napoli e, cosa curiosa, non c’è mai stato ritrovamento di
vittime, fasciame o oggetti della nave. La notizia venne fatta giungere a
Torino solo dopo il 17 marzo 1861, data della proclamazione del nuovo regno
d’Italia. La magistratura piemontese non aprirà nessuna indagine: solo una
apatica quanto inutile inchiesta ministeriale stabilirà che la tragedia è stata
causata da un incendio dei motori del piroscafo. La versione, frutto della
volontà di chiudere in fretta il caso, convincerà ben poche persone, e
l’accaduto era destinato a rimanere in un lunghissimo oblio.
Il 5 marzo del 1961, esattamente un secolo dopo, il noto documentarista
Stanislao Nievo, pronipote di Ippolito, si mette all’opera per far luce sulla
morte dello zio. Setaccia archivi e biblioteche. Fruga nell’epistolario
dell’avo, ne ricostruisce la vita e gli ultimi giorni, chiede aiuto al famoso
esploratore e ingegnere svizzero Jacques Piccard, che gli mise a disposizione
il suo innovativo batiscafo, capace di esplorare gli abissi a notevole
profondità. Le ricerche durano otto anni e finalmente il relitto viene avvistato a
240 metri di profondità, nel tratto di mare compreso tra Punta Campanella e le
Bocche di Capri. Dalle analisi, specie quelle del vano motore, il documentarista parlò
senza mezzi termini di affondamento provocato da una esplosione, essendo stati rilevati degli ampi squarci alle caldaie. Ma chi ebbe
interesse a far saltare in aria il vascello ? A quale scopo ? Garibaldi, i suoi nemici di Torino, la corona sabauda o
gli inglesi?
Secondo alcuni storici, i servizi inglesi erano a conoscenza del viaggio
di Nievo e scortarono la nave in gran segreto, sapendo che conteneva molti
soldi. Altri parlavano di misteriosi agenti del Cavour entrati in azione su
quella nave. Non è dato saperlo. L’unica certezza è quella che i libri di
storia scolastici e celebri e affermati storici, anche contemporanei, non hanno
mai fatto cenno a questo che sembra l’ennesimo caso molto inquietante e oscuro
della storia d’Italia, probabilmente il primo.
In pochi sanno che su questa vicenda sono stati pubblicati diversi
volumi. Primo fra tutti, lo stesso pronipote del Nievo, Stanislao, che,
terminate le ricerche, diede alle stampe il volume “il prato in fondo al mare”,
del 1974 e vincitore del Premio Campiello nel 1975. Metà saggio storico e metà
diario immaginario, secondo il critico letterario Cesare Garboli si intravede
nel libro la rappresentazione di una sospetta strage di stato italiana, con la
quale si sarebbe aperta la storia dell’Italia unita. Quello delle stragi
misteriose e senza colpevoli sarà il leitmotiv
della storia italiana, fino ai giorni nostri!!!
Questa tesi viene ripresa da Umberto Eco, nel romanzo “il cimitero di
Praga”, del 2010. Il primo sporco affare di cui si occupa il suo protagonista,
il camaleontico e abilissimo falsario Simone Simonini, è proprio la
soppressione di Ippolito Nievo. Il patriota è in possesso di prove
compromettenti, che dimostrano come l’esercito borbonico sia stato sconfitto
grazie a una rete di complicità massoniche e di tradimenti di generali del
Regno delle Due Sicilie, corrotti dall’oro britannico e dai servizi segreti sabaudi.
Oltre a Eco, altri scrittori e studiosi si sono cimentati in quello che
l’antropologo Nino Buttitta, figlio del grande poeta siciliano Ignazio, ha
definito una sorta di caso Mattei ante litteram. Duilio Chiarle, Rino
Cammilleri, Lucio Zinna, Cesaremaria Glori, tutti propensi a sposare la tesi
del complotto, secondo cui l’eliminazione di Nievo era stata concepita a Torino
(per screditare la spedizione/farsa dei mille) o addirittura in ambienti
garibaldini (per occultare le malversazioni di cui si erano macchiati molti
esponenti dell’esercito e delle camicie rosse).
Sul caso Nievo è tornato lo scrittore Lorenzo Del Boca, che prende spunto
e rielabora il pensiero del suo capostipite, Carlo Alianello, la cui opera più
citata, La conquista del Sud, del 1972, è un duro atto di accusa contro la
politica di Cavour e dei Savoia, rei di una unificazione del paese artificiosa,
estranea agli interessi del Mezzogiorno e architettata in combutta col governo
britannico e le massonerie di mezza Europa. Nel suo lavoro appena ristampato
Del Boca descrive il Nievo come un pignolissimo e onesto piantagrane, che rese
impossibile la vita ai suoi vertici (Risorgimento disonorato – il lato oscuro
dell’unità d’Italia).
Per sfogare la sua amarezza, a Nievo restano soltanto le pagine dei suo
diario. E’ lì che egli annota diligentemente i piccoli e grandi ricatti subìti
nello svolgimento del suo delicato ufficio. D’altro canto, non gli sfuggiva che
il clima politico del paese stava cambiando. L’unificazione era ad un passo, e la
lotta per la supremazia nel nuovo parlamento acuiva le rivalità, i contrasti e
i reciproci sospetti tra lo schieramento liberale e quello democratico.
Dalla Sicilia, pochi giorni prima del suo imbarco per Napoli, il Nievo
scrisse una lettera a Cesare Cologna, un caro compagno di vacanze. Un paio di
foglietti, con la solita calligrafia minuta, leggermente inclinata verso destra: < …. mi conservo fanciullo.... Mi muovo per muovermi, respiro per respirare, morirò
per morire. E tutto sarà finito >. In effetti tutto finirà una settimana dopo, quando
salirà a bordo dell’Ercole.
Quel giorno l’autore delle Confessioni
d’un italiano era un giovane uomo di neanche trent’anni, “elegante,
distaccato, viso morbido, dal carattere imprevedibile, ora caldo ora gelido.
Freddo coi superiori, proteggeva i suoi subalterni come una gatta coi suoi
piccoli […]. Romantico
e razionale nell’azione, coraggioso, temeva due cose, le malattie e il mare”
(Stanislao Nievo). E il mare se lo sarebbe portato via, insieme a tanti oscuri segreti custoditi in quei bauli, ai primi vagiti della nuova Storia d'Italia, già condita di quegli ingredienti subdoli e inconfessabili che caratterizzeranno molte vicende successive.
Molti di noi non si meravigliano affatto del consolidato malcostume italiano, venuto
prepotentemente a galla e all’onore delle cronache negli ultimi trent’anni, fra
mala politica e malaffare, se i presupposti non proprio edificanti sono stati
questi: una nazione nata dalla corruzione, dal terrorismo di stato e da oscure
trame di potere.
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