sabato 19 giugno 2021

IPPOLITO NIEVO: storia ordinaria di corruzione e terrorismo

 Ippolito Nievo è stato un letterato, poeta e patriota italiano, vissuto nel diciannovesimo secolo e attivo partecipe degli eventi che hanno portato all’unificazione degli stati italiani sotto un’unica bandiera. Nato nel 1831 a Padova, da famiglia agiata, e avendo vissuto la sua infanzia e la prima giovinezza fra Veneto e Friuli, negli anni ha sviluppato una accesa insofferenza verso i dominatori austriaci, fattore che l’ha avvicinato agli ambienti patriottici e rivoluzionari. Nel 1855 si laurea in Legge all’università di Padova. Il padre, avvocato, vuole avviarlo alla carriera forense, ma Ippolito sceglie di non esercitare la professione per non fare atto di sottomissione al governo austriaco. Nel 2011 la Fazi editore ha pubblicato un romanzo storico di Paolo Ruffilli dal titolo “L’isola e il sogno”, interamente dedicato alla vita, breve ma avventurosa, di Ippolito Nievo, l’autore del celebre “Le confessioni di un italiano”, opera che uscì postuma nel 1867. Ad onore del vero, però, va detto che la vita di Nievo non fu per niente romanzata ma ebbe risvolti piuttosto drammatici e nello stesso tempo inquietanti, che gettano una luce cupa sulla fin troppo ridondante e stucchevolmente retorica epopea risorgimentale.

Giovanissimo, aveva partecipato attivamente ai moti del 1848, ma era stato l’incontro con Giuseppe Garibaldi a condizionare la sua vita, tanto che nel 1859 si arruolò nei Cacciatori delle Alpi, per poi indossare la camicia rossa e partecipare, l’anno seguente, alla spedizione dei Mille. Dopo essere stato nominato vice intendente della spedizione, il Nievo compilò un diario in cui annotava con precisione certosina tutti gli accadimenti che si verificarono dal 5 al 28 maggio del 1860. In seguito fece ritorno a Torino, soddisfatto di aver dato il suo apporto alla causa dell’unità nazionale. Gli viene conferito il grado di colonnello dell’esercito piemontese.





Poco dopo la spedizione, intanto, Garibaldi venne messo da parte da Vittorio Emanuele II, e la reggenza delle regioni meridionali affidata a fedelissimi funzionari della corona sabauda. Da questo momento si iniziò a far luce sulla gestione dei fondi dell’intera spedizione, fondi raccolti dalle generose sottoscrizioni effettuate sia in Italia che all’estero (specialmente dall’Inghilterra, dove la massoneria si diede un gran da fare!!!) e poi cresciuti in maniera abnorme man mano che i liberatori “requisivano” le casse del Banco di Sicilia prima e di Napoli dopo, ricche di depositi finanziari del governo borbonico. La somma raggiunse la stratosferica cifra di 600 milioni di lire (per rendere meglio l’idea, il corrispettivo attuale in euro è di circa tre miliardi !!!!).

Garibaldi affidò l’amministrazione di tale ingente patrimonio ad Agostino Bertani, medico milanese di fervente fede repubblicana, divenuto di fatti il cassiere dei Mille. Nessuno ha mai fatto chiarezza sulla limpidezza della gestione di Bertani, sta di fatto che il dottore meneghino, dopo breve tempo, divenne esageratamente ricco, cosa che prima non era. A Torino pensarono bene di affidare ad Ippolito Nievo il delicato incarico di tornare in Sicilia e recuperare ogni sorta di documentazione sulla gestione finanziaria dell’impresa dei mille, senza tener conto che la spedizione aveva comunque proseguito il suo cammino, risalendo la Calabria fino a Napoli e che lungo il tragitto e nella capitale borbonica fu requisito e prelevato tutto ciò che c’era da prendere (se questo non si chiama furto, datemi una mano a trovargli un nome).

Nievo, nei sui resoconti, aveva annotato con precisione maniacale ogni particolare: il numero degli arruolati, le paghe ad essi corrisposti, i costi delle forniture militari e le spese di gestione. Spesso si era trovato in disaccordo con i responsabili del nuovo governo dittatoriale, riscontrando una enorme confusione e i conti che non quadravano affatto. Fra le diverse operazioni sospette, l’acquisto di sessanta mila cappotti destinati ai garibaldini, ma mai indossati: si scoprirà che gli stessi garibaldini li rivendevano a basso prezzo, per intascarsi i soldi! Un numero spropositato e ingiustificato di promozioni nell’esercito, in modo da far lievitare la paga mensile per molti componenti la spedizione! Inoltre, nei vari reparti dell’esercito si annotavano gli arrivi, ma non i trasferimenti e i congedi, cosicché parte del contingente che formava il battaglione era di fatto fittizio, ma il denaro che arrivava in base al numero dei soldati iscritti era vero però !!!

Il Nievo soggiornò per qualche giorno a Napoli, in compagnia del suo diretto superiore Giovanni Acerbi. Fu questi che gli indicò di recarsi a Palermo, al fine di procurarsi la documentazione. Imbarcatosi il 15 febbraio del 1861 sul vapore “Elettrico”, giunse a Palermo tre giorni dopo. Verso la fine del mese, dopo aver raccolto una imponente documentazione cartacea, che stivò in sei capienti casse, il letterato decise di far rientro a Napoli. In una cassa in particolare, dalla quale Nievo non si separava mai, erano contenuti molti soldi, ricevute, fatture, lettere e tutto quello che riguardava l’ingente patrimonio garibaldino. Fra i tanti carteggi, c’erano le prove di un finanziamento di dieci mila piastre turche (all’incirca 15 milioni di euro attuali – la piastra turca all’epoca era la valuta con la quale avvenivano le transazioni commerciali e finanziare nel Mediterraneo), il cui destinatario era proprio il Garibaldi, bonifico arrivato da Londra a nome di misteriosi funzionari governativi. Per le cronache di politica europea dell’epoca, diciamo che l’Inghilterra era favorevole al ridimensionamento del Papato e dei Borbone del Regno delle Due Sicilie, oltre all’interesse famelico per l’enorme ricchezza contenuta nelle banche del Regno.

Ma all’origine dell’ostilità antiborbonica della corona britannica c’era un vecchio contenzioso sullo sfruttamento del prezioso zolfo siciliano, indispensabile per la produzione di polvere da sparo. Inoltre, da poco era stato aperto il canale di Suez e i bastimenti inglesi, di ritorno dalle Indie, seguivano proprio la rotta mediterranea siciliana. Quindi i reali borbonici erano considerati inaffidabili, in quanto più di una volta avevano tentato di mettere in discussione il monopolio delle grandi compagnie inglesi nell’estrazione del minerale ( ma i Borbone non facevano altro che praticare prezzi di mercato e al miglior offerente !!!).

Tra le numerose prove cartacee presenti nel baule, si registrano anche quelle da cui emergono generose ricompense per spie ed informatori segreti, oltre a gravi responsabilità di Garibaldi e di alcuni banchieri palermitani conniventi che avevano utilizzato fondi dei correntisti del Banco di Sicilia per corrompere diversi generali dell’esercito borbonico, in particolare il Lanza, che in cambio di una sostanziosa somma, ordinò a 25 mila soldati ben armati ed equipaggiati di abbandonare Palermo e metterla in mano a 600 garibaldini della peggior razza, sporchi, inesperti e male armati !!!





La documentazione raccolta da Ippolito Nievo era molto scottante e più di una persona aveva interesse a farla sparire. Negli ambienti politici e giudiziari torinesi e nell’opinione pubblica piemontese, oltre che nella libera informazione di metà ottocento, circolavano voci non proprio edificanti, di gestioni sospette, di oscure operazioni e di avventurieri che, partiti senza un soldo dalle lande del nord per aggregarsi ai mille (gran parte dei garibaldini imbarcati erano montanari bergamaschi, che non avevano mai visto il mare prima di allora) erano ritornati a casa inspiegabilmente arricchiti! Inoltre si faceva cenno a una nuova società per azioni, costituita da poco (con quali capitali?!!) e appaltatrice dei lavori per la costruzione delle ferrovie in Sicilia, i cui maggiori azionisti, guarda caso, erano il medico Bertani e Domenico Menotti Garibaldi, figlio primogenito di Giuseppe Garibaldi (non so se ridere o piangere) !!!

La mattina del 4 marzo 1861 Nievo si imbarcò sul vascello a vapore “Ercole”, attraccato al molo dell’Arsenale del porto di Palermo. Sulla nave, al comando del capitano Michele Mancino, vi erano 63 marinai, 12 passeggeri e 233 tonnellate di merci. Tra i passeggeri erano presenti alcuni ufficiali garibaldini, che “scortavano” il letterato e le sue preziose casse. Nella notte tra il 4 e il 5 marzo, giunti quasi in vista dell’isola di Capri, quindi molto vicini allo sbarco, la nave improvvisamente si inabissò. Non ci fu alcun superstite. Si trattò di una strana coincidenza, in quanto quella notte le condizioni atmosferiche erano ottimali e il mare piuttosto calmo. Il piroscafo non arrivò mai a Napoli e, cosa curiosa, non c’è mai stato ritrovamento di vittime, fasciame o oggetti della nave. La notizia venne fatta giungere a Torino solo dopo il 17 marzo 1861, data della proclamazione del nuovo regno d’Italia. La magistratura piemontese non aprirà nessuna indagine: solo una apatica quanto inutile inchiesta ministeriale stabilirà che la tragedia è stata causata da un incendio dei motori del piroscafo. La versione, frutto della volontà di chiudere in fretta il caso, convincerà ben poche persone, e l’accaduto era destinato a rimanere in un lunghissimo oblio.

Il 5 marzo del 1961, esattamente un secolo dopo, il noto documentarista Stanislao Nievo, pronipote di Ippolito, si mette all’opera per far luce sulla morte dello zio. Setaccia archivi e biblioteche. Fruga nell’epistolario dell’avo, ne ricostruisce la vita e gli ultimi giorni, chiede aiuto al famoso esploratore e ingegnere svizzero Jacques Piccard, che gli mise a disposizione il suo innovativo batiscafo, capace di esplorare gli abissi a notevole profondità. Le ricerche durano otto anni e finalmente il relitto viene avvistato a 240 metri di profondità, nel tratto di mare compreso tra Punta Campanella e le Bocche di Capri. Dalle analisi, specie quelle del vano motore, il documentarista parlò senza mezzi termini di affondamento provocato da una esplosione, essendo stati rilevati degli ampi squarci alle caldaie. Ma chi ebbe interesse a far saltare in aria il vascello ? A quale scopo ?  Garibaldi, i suoi nemici di Torino, la corona sabauda o gli inglesi?

Secondo alcuni storici, i servizi inglesi erano a conoscenza del viaggio di Nievo e scortarono la nave in gran segreto, sapendo che conteneva molti soldi. Altri parlavano di misteriosi agenti del Cavour entrati in azione su quella nave. Non è dato saperlo. L’unica certezza è quella che i libri di storia scolastici e celebri e affermati storici, anche contemporanei, non hanno mai fatto cenno a questo che sembra l’ennesimo caso molto inquietante e oscuro della storia d’Italia, probabilmente il primo. 

In pochi sanno che su questa vicenda sono stati pubblicati diversi volumi. Primo fra tutti, lo stesso pronipote del Nievo, Stanislao, che, terminate le ricerche, diede alle stampe il volume “il prato in fondo al mare”, del 1974 e vincitore del Premio Campiello nel 1975. Metà saggio storico e metà diario immaginario, secondo il critico letterario Cesare Garboli si intravede nel libro la rappresentazione di una sospetta strage di stato italiana, con la quale si sarebbe aperta la storia dell’Italia unita. Quello delle stragi misteriose e senza colpevoli sarà il leitmotiv della storia italiana, fino ai giorni nostri!!!

Questa tesi viene ripresa da Umberto Eco, nel romanzo “il cimitero di Praga”, del 2010. Il primo sporco affare di cui si occupa il suo protagonista, il camaleontico e abilissimo falsario Simone Simonini, è proprio la soppressione di Ippolito Nievo. Il patriota è in possesso di prove compromettenti, che dimostrano come l’esercito borbonico sia stato sconfitto grazie a una rete di complicità massoniche e di tradimenti di generali del Regno delle Due Sicilie, corrotti dall’oro britannico e dai servizi segreti sabaudi. Oltre a Eco, altri scrittori e studiosi si sono cimentati in quello che l’antropologo Nino Buttitta, figlio del grande poeta siciliano Ignazio, ha definito una sorta di caso Mattei ante litteram. Duilio Chiarle, Rino Cammilleri, Lucio Zinna, Cesaremaria Glori, tutti propensi a sposare la tesi del complotto, secondo cui l’eliminazione di Nievo era stata concepita a Torino (per screditare la spedizione/farsa dei mille) o addirittura in ambienti garibaldini (per occultare le malversazioni di cui si erano macchiati molti esponenti dell’esercito e delle camicie rosse).

Sul caso Nievo è tornato lo scrittore Lorenzo Del Boca, che prende spunto e rielabora il pensiero del suo capostipite, Carlo Alianello, la cui opera più citata, La conquista del Sud, del 1972, è un duro atto di accusa contro la politica di Cavour e dei Savoia, rei di una unificazione del paese artificiosa, estranea agli interessi del Mezzogiorno e architettata in combutta col governo britannico e le massonerie di mezza Europa. Nel suo lavoro appena ristampato Del Boca descrive il Nievo come un pignolissimo e onesto piantagrane, che rese impossibile la vita ai suoi vertici (Risorgimento disonorato – il lato oscuro dell’unità d’Italia).

Per sfogare la sua amarezza, a Nievo restano soltanto le pagine dei suo diario. E’ lì che egli annota diligentemente i piccoli e grandi ricatti subìti nello svolgimento del suo delicato ufficio. D’altro canto, non gli sfuggiva che il clima politico del paese stava cambiando. L’unificazione era ad un passo, e la lotta per la supremazia nel nuovo parlamento acuiva le rivalità, i contrasti e i reciproci sospetti tra lo schieramento liberale e quello democratico.

Dalla Sicilia, pochi giorni prima del suo imbarco per Napoli, il Nievo scrisse una lettera a Cesare Cologna, un caro compagno di vacanze. Un paio di foglietti, con la solita calligrafia minuta, leggermente inclinata verso destra: < …. mi conservo fanciullo.... Mi muovo per muovermi, respiro per respirare, morirò per morire. E tutto sarà finito >. In effetti tutto finirà una settimana dopo, quando salirà a bordo dell’Ercole.

Quel giorno l’autore delle Confessioni d’un italiano era un giovane uomo di neanche trent’anni, “elegante, distaccato, viso morbido, dal carattere imprevedibile, ora caldo ora gelido. Freddo coi superiori, proteggeva i suoi subalterni come una gatta coi suoi piccoli […]. Romantico e razionale nell’azione, coraggioso, temeva due cose, le malattie e il mare” (Stanislao Nievo). E il mare se lo sarebbe portato via, insieme a tanti oscuri segreti custoditi in quei bauli, ai primi vagiti della nuova Storia d'Italia, già condita di quegli ingredienti subdoli e inconfessabili che caratterizzeranno molte vicende successive.


Molti di noi non si meravigliano affatto del consolidato malcostume italiano, venuto prepotentemente a galla e all’onore delle cronache negli ultimi trent’anni, fra mala politica e malaffare, se i presupposti non proprio edificanti sono stati questi: una nazione nata dalla corruzione, dal terrorismo di stato e da oscure trame di potere.